Società in Europa. La scelta della Repubblica Ceca
Società in Europa. La scelta della Repubblica Ceca: Nell’Europa della crisi il nemico si chiama evasore fiscale e i leader di tutti i paesi Ue proclamano di volersi fare paladini della legalità e recuperare i miliardi fuggiti all’estero.
Eppure il metodo preferito dagli europei per pagare meno tasse non è quello di andare alle Cayman, ma di lasciare i propri capitali in Europa. Perché la Ue non è un’unione fiscale né tanto meno tributaria e ognuno dei 27 paesi membri può applicare le aliquote che vuole, creando un mercato europeo del conto corrente che si adatta a tutte le tasche.
I paradisi dove arrivano i capitali in fuga non sono più dietro la porta – la Svizzera non è più una meta così gettonata – ma direttamente dentro casa, anche in membri fondatori dell’Unione come la Repubblica Ceca.
La Commissione europea ha quantificato il costo dell’evasione fiscale per gli Stati dell’Unione a 1 trilione di euro l’anno. Significa che nel 2012 i 27 membri avrebbero avuto a disposizione mille miliardi di euro in più se nessuno avesse presentato una falsa dichiarazione dei redditi o spostato le proprie ricchezze in un posto diverso da quello dove le ha guadagnate. La Commissione dice di non essere più disposta a tollerare perdite così ingenti e ha raccomandato a tutti gli Stati membri di creare blacklist di paradisi fiscali e adottare regole contro gli abusi.
Il primo a rispondere all’appello è stato il premier britannico David Cameron. Al World economic forum di Davos ha dichiarato: «Sono un conservatore favorevole a tasse basse, ma non sono un conservatore favorevole alle aziende che non pagano le tasse. Le società che pensano di continuare a vendere nel nostro paese mentre stipulano accordi fiscali sempre più complessi all’estero per ridurre all’osso i loro contributi devono svegliarsi e rendersi conto della realtà, perché gli acquirenti ne hanno abbastanza».
Subito preoccupato che gli dessero del radicale o del comunista, Cameron ha aggiunto: «Dichiarare queste cose apertamente non significa essere anticapitalisti o contro il business. Se vuoi mantenere basse le tasse devi assicurarti che le tasse entrino». E invece in Gran Bretagna il fisco piange, almeno a giudicare dall’ultimo rapporto Oxfam, che parla di un’evasione da 5.2 miliardi di sterline (6 miliardi di euro). Per rimediare, il governo inglese ha aumentato di un miliardo di sterline gli investimenti nell’agenzia delle imposte, per riportare in patria 22 miliardi di sterline all’anno entro il 2015.
Sentire di capitali che fuggono dall’Inghilterra suona strano per chi ha visto Valentino Rossi trasferirsi a Londra per pagare meno tasse. Ma l’Europa è così, per ogni tipo di gruzzolo ha il suo paradiso fiscale.
Il luogo più gettonato, oggi, sembra l’Olanda, dove hanno spostato buona parte dei loro profitti Yahoo, Google e Dell.
I big dell’informatica hanno usato tecniche ormai sperimentate da tutti i “tax planner”, come il Netherland Sandwich, ovvero la creazione di speciali unità finanziarie di diritto olandese che esistono solo sulla carta, ma che sono servite a indirizzare nei Paesi Bassi 10.2 trilioni di euro solo nel 2010.
In totale, pare che da Amsterdam passino 13 mila miliardi di dollari stornati al fisco altrui. Un settore che genera dividendi, soprattutto per tutti i servizi di consulenza e assistenza al “risparmiatore” fioriti in questi ultimi anni intorno a Amsterdam, ma gli olandesi non vogliono più fare la parte della pecora nera e in parlamento cominciano a parlare di riforme. Il laburista Ed Groot, ad esempio, ha recentemente dichiarato: «Sono stufo di queste società-casella postale. Bisogna cambiare le leggi e impedire agli evasori di usarci per nascondere i loro soldi».
Ma basta fare due passi più a sud per arrivare in un altro paradiso. Il quotidiano economico fiammingo De Tijd ha appena pubblicato un’inchiesta sugli strumenti finanziari più remunerativi concludendo che il Belgio fornisce accoglienza fiscale a circa il 20% delle più grandi società al mondo. Le prime 25 disporrebbero, secondo il giornale, di 336 miliardi di fondi sistemati a Bruxelles per un “risparmio fiscale” pari a 25.4 miliardi. È arrivato da queste parti anche Bernard Arnault, patron della multinazionale francese Luis Vuitton. Arnault ha presentato in questi giorni i suoi conti alla Banca nazionale belga, conti che hanno dimostrato come nel 2010 e nel 2011 l’imprenditore abbia realizzato utili per 85,7 milioni di euro senza pagare un centesimo di imposte al Regno.
Con tutta questa concorrenza, i paradisi fiscali “tradizionali” sono costretti a raccattare le briciole. A Cipro – nota sopratutto per attrarre capitali russi – le casse dello Stato languono ed è necessario l’aiuto della Ue per evitare la bancarotta. Ma Bruxelles non è disposta a versare i soldi del Fondo salva-Stati se Nicosia non attuerà le riforme necessarie a smantellare un sistema bancario “opaco”. Cipro promette più trasparenza, ma nel frattempo ha trovato un modo alternativo per reperire un po’ di cash: firmare concessioni per l’esplorazione dei suoi giacimenti gasiferi offshore con l’italiana Eni e la sudcoreana Kogas.
Tra facili proclami e faticose promesse, gli euro burocrati non mollano: la “guerra” all’evasione fiscale deve contribuire alla ripresa dell’Unione. Ma con almeno 80 paradisi fiscali che in tutto il mondo accolgono circa 32 trilioni di dollari, quella di Bruxelles rischia di apparire come una sfida ai mulini a vento.
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